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XII. - A FRANCESCO NELLI



larghe promesse, non la disusata liberalitá, non la molta dolcezza delle parole ricoprissono alcuna cosa meno che vera, o vero inducessono scorno. Finalmente da me, poco fidandomi, l’epistola tua rimosse il dubbio, e, con pace del tuo Mecenate sia detto, a te credetti. Me nella promessa del venire i conforti tuoi sospinsono, però che tu sapevi che modo fusse a me di vivere nella patria, che ordine e che studio: e però nell’animo mio fermai che tu non dovessi uno uomo d’etá compiuta consigliare che entrasse in nuovi costumi o diversi agli usati; e cosí venni nel consiglio tuo. Ed acciò che tu dopo il mio venire ragionevolmente non mi potessi dire troppo sciocco, io ti scrissi una lettera, la copia della quale è appresso di me, nella quale interamente ti faceva savio che animo fusse in me venendo costá: e non troverai, se tu la producerai innanzi, me avere commessa alcuna cosa contro a quella. Ma che dico io molte parole? Io venni con malo augurio, ed a Nocera te ed il tuo Grande trovai. O lieto dí, o ricevuta festevole! Non altrimenti che se io tornassi de’ borghi o del contado vicino a Napoli, non con viso ridente, con amichevole abbracciare e graziose parole dal tuo Mecenate ricevuto sono: anzi, appena portami la mano ritta, in casa sua entrai. Augurio certamente infelice! Di quindi il seguente dí venimmo a Napoli, dove, acciò che io non racconti tutte le cose che avvennono, subitamente la parte della chiara felicitá secondo la promessa mi fu assegnata, te ciò faccendo, con ciò sia cosa che tu fussi proposto al governo dello splendido albergo: onorevole ed egregia parte e con lungo imaginare pensata! Sono al tuo Mecenate cittá nobilissime e castella molte, ville e palagi e grandissimi poderi, piú luoghi riposti e nascosi e dilettevoli, acciò che io non dica l’altre gran cose di grandissimo splendore chiare; il che avere aperto a te è sanza dubbio di soperchio. Intra queste cose cosí risplendenti era ed è una breve particella attorniata e rinchiusa, d’una vecchia nebbia di tele di ragnolo e di secca polvere disorrevole, fetida e di cattivo odore e da essere tenuta a vile da ogni uomo quantunque disonesto, la quale io spessissime volte teco, quasi d’un grande naviglio la piú bassa parte, d’ogni bruttura recettacolo, «sentina» chiamai. In questa io, sí come nella conceduta parte della felicitá grandissima, quasi nocivo, non come amico dalla lunga, sono mandato a’ confini; la possessione della quale acciò che come destinato abitatore pigliassi, innanzi all’altre cose mi ricorda (non credere che io sia dimentico), per tuo comandamento fatto, giá tenendo noi mezzo novembre,