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Pagina:Boccaccio, Giovanni – Opere latine minori, 1924 – BEIC 1767789.djvu/162

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EPISTOLARUM QUAE SUPERSUNT



me quasi un vile schiavo essere suto da te lasciato nel seno di Baia, primieramente essere suto chiamato «di vetro». Ma, tornando a Napoli, però che il mio Mainardo al servigio della reina obligato trovai essere andato a Sant’Eramo, dalla sentina spaventato, a casa uno amico mercatante e povero mi tornai spontaneamente, ciò il tuo Mecenate pazientemente sofferendo; col quale, faccendo esso vista di non vedere, cinquanta dí o piú fui non sanza vergogna, cioè infino al mio partire. Ma qui è da fermarsi un pochetto, acciò che io apra un poco quello che io ho scritto, ed è infino a qui paruto che con mansueto animo abbia passato. Deh! dimmi: ètti paruta la persona mia cosí vile? Conoscimi tu per cosí da poco, per cosí indegno almeno d’un poco d’onore, che tu debbi avere stimato che io sia da essere trattato con sí orribili villanie, con cosí servili? Donde m’avevi tu ricolto? del loto o della feccia? Donde m’avevi tu cavato? della prigione de’ servi? Donde m’avevi tu tratto? de’ ceppi o della puzza della prigionia? Donde m’avevi tu sciolto? dalla mangiatoia della maliziosa Circe? che cosí vilmente, cosí bruttamente, cosí al tutto merdosamente me, o vero per tua natura o vero sospinto dal tuo Mecenate, dovessi avere cosí trattato? Non veramente: ma dalla casa mia, dalla patria mia, da quello luogo nel quale, benché non reali, almeno alla qualitá mia convenevoli vivande abbondevolmente erano date. Donde adunque viene questa negligenzia cosí del tuo Mecenate come tua, questa schifiltá, questo scherno? Aveva io scherniti voi? avevavi io fatti da poco? avevavi io disonestati in lettere o in parole? Non veramente. Io mi penso che il tuo Mecenate si pensasse che io fussi uno de’ suoi greculi e che io non avessi altro refugio se non la sentina sua. Egli è ingannato. Io n’ho molti ed onorevoli, dove il suo è vituperevole; e benché egli sia grande e ricco, non dubito che io non sia molto piú onorevole di lui, da coloro che ambedue ci conoscono, riputato, benché io sia povero. In uno altro che in me questa sua abominevole magnificenzia dimostrare doveva, e tu la preeminenzia del tuo ufficio. Ma tolto non sará tempo a queste cose, se io vivo. Nondimeno, con ciò sia cosa che le promesse piú e piú volte fattemi non mi fussono attenute, per non mangiare il pane il quale si doveva dare mangiare a’ figliuoli del mio oste cortese, e per non essere piú straziato dal tuo Mecenate, con ciò sia cosa che piú volte te l’avessi detto dinanzi, con quella temperanzia che io potei al tuo Grande domandata licenzia, posto che dall’amico mio mi partissi, e partendomi, a Vinegia me