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XII. - A FRANCESCO NELLI



gramatica intendere quello che scrisse il taliano, e che a lui sia copia de’ libri vulgari, da’ quali possa le storie e le cagioni delle cose abbondevolmente pigliare: la qual cosa avere avuta lui per fermo, è chiaramente manifesto. A cui non si dá egli a credere agevolmente quello che ardentemente desidera? Di quinci adunque, sí come per le giá dette cose è manifesto, con l’altrui lettere, con ciò sia cosa che con le sue non cosí compiutamente abbia fatto, nome perpetuo e fama desidera. Ed acciò che e’ paia quello doversi approvare che e’ desidera, lui spesse volte veggiamo intra’ piú sommi sedere, e parlare e recitare storiuzze note alle femminelle, ed alcuna volta mandare fuori alcune parole che sanno un poco di gramatica, libri palesemente trassinare e leggere alcuni versicciuoli; tutti ancora libri, per ragione o per forza o per dono o per prezzo o per rapina aggregati, comporre nello scrittoio, e spessissime volte, mentre che nel parlare si cade nel nome d’alcuno di questi, dire, non altrimenti che se tutto l’avesse letto, sé averlo nell’armario, e molte simili cose fare. E certamente egli è laudevole desiderio, e non è dubbio che esso non sia da mandare innanzi agli altri che vengono meno: però che quelli che sono valenti nella litteratura ciò che per addietro è fatto hanno nel conspetto, le leggi della nostra madre natura e l’andamento del cielo e delle stelle conoscono, e sanno il circuito della terra ed i liti del mare e le cose che sono in quelli, e, quello che è molto da commendare, non solamente fanno chiaro nelle lettere il nome degli altri, ma, scrivendo, nell’etternitá levano il suo; per la qual cosa, sí come le stelle il cielo, cosí i nomi di cosí fatti uomini fanno chiara la terra. Vedi con quanta luce risplendano e con quanta reverenzia ed ammirazione ancora dagl’ignoranti sieno ricevuti i nomi, benché nudi sieno, d’Orfeo, di Museo, di Platone, d’Aristotile, d’Omero, o di Varrone, di Sallustio, di Tito Livio, di Cicerone, di Seneca e d’altri simili, acciò che io lasci quelli de’ santi uomini, piú degni di loda, però che è altra operazione. Ed a volere essere nobilitato di cosí fatti titoli, con molta fatica si fa quello, perché si va nelle composizioni, dalle quali altri è nel chiaro lume condotto. Di queste cose niente truovo fatto dal tuo Mecenate; sento nondimeno, una ammirabile attitudine nella litteratura a lui da natura essere stata conceduta. Ma che pro’ fa avere l’attitudine e dispregiarla, ed avere rivolto in atti molto diversi quello che doveva rivolgere negli studi delle lettere? E che che si dica il suo Coridon, le cose vulgari non possono fare uno uomo