Il diritto universale/Nota/VI. Della presente edizione

E Wikisource

 V. Gli esemplari postillati e le Notae Indice dei nomi 

del resto, se avesse ben riflettuto, gli sarebbe parso, quale è, inattuabile, dal momento che, tra le Notae, non c’è, e non ci poteva essere, «aggiunta» che non sia al tempo stesso «rettificazione», e «rettificazione» che non sia insieme «aggiunta». Il Ferrari, invece, adottò il criterio, meramente empirico, d’intercalare nel testo, e senza alcun segno o avvertenza che le distinguesse, quelle non molte notae per le quali la cosa era possibile senza urtare troppo contro la sintassi, e di dare le altre tutte, quale che ne fosse l’argomento e l’estensione, in carattere piccolissimo, in altrettante note a piè di pagina. Da che, oltre gl’inconvenienti giá mentovati, anche quest’altro: che a piè di pagina si alternano nel medesimo carattere: a) i loci (o rimandi) aggiunti dal Vico nel De uno e nel De constantia, b) la maggior parte delle giunte, correzioni e dissertazioni contenute nelle Notae, c) talune annotazioni dilucidative o esornative di esso Ferrari, redatte anch’esse in latino e prive della sacramentale abbreviazione «[Ed.]». Certamente ai primi precedono numeri arabi — (1), (2), (3), ecc.,— alle seconde lettere alfabetiche — (a), (b), (c), ecc. — e alle terze asteristichi — (*), (**), (***), ecc.: — onde un lettore che non si distragga mai ha modo di distinguere. Ma siffatte distinzioni non furono serbate sempre nelle ristampe (specie in quella napoletana del Pomodoro), col curioso risultato che si è condotti piú d’una volta non solo a scambiare «loci» e «notae», ma altresí ad attribuire a Giambattista Vico la prosa, alquanto meno profonda e alquanto meno elegante, di Giuseppe Ferrari.

Ciò premesso, apparirá, io credo, legittimo in sede critica e opportuno in sede pratica il criterio storico a cui s’è ispirata la presente riedizione, e ch’è stato, naturalmente, di ripubblicare l’intero Diritto universale cosí come lo era venuto pubblicando via via il Vico, e cioè di dare nel primo volume (al quale s’è premessa la Sinopsi) il De uno, nel secondo il De constantia, nel terzo le Notae.

Con che non si vuol dire che questa sia una riproduzione diplomatica o, ch’è poi lo stesso, una ristampa materiale dell’edizione originale. Per contrario, diversamente da tutti i miei predecessori, che lasciarono inalterate la grafia e l’interpunzione vichiane, ho cominciato col conformare la prima alle norme della presente collezione e col sopprimere, al tempo stesso, quel continuo alternarsi di caratteri «tondi», «corsivi» e «maiuscoletti» o «MAIUSCOLI», che, sebbene in misura men fastidiosa che non nelle

due Scienze nuove[1], s’incontra giá nel Diritto universale. E, ch’è piú, ho rifatto da cima a fondo la punteggiatura, studiandomi anzitutto di renderla interpretativa.

Che la cosa non sia stata per me sempre agevole, intenderá da sé chiunque, avendo pratica di lavori siffatti, conosce per esperienza quante volte si resti esitanti di fronte al piccolo problema se aggiungere o espungere una virgola, specie quando, come nel caso presente, si abbia davanti un difficile testo filosofico, scritto, per giunta, in un latino, aureo bensí (non mai anzi, sino al Diritto universale, il Vico s’era mostrato umanista cosí squisito), ma che, essendo pur piegato, e talora costretto, a esprimere con vocaboli e costrutti ciceroniani, e piú ancora plautini, terenziani, sallustiani e tacitiani, concetti filosofici maturatisi, durante i primi anni del secolo decimottavo, nella mente d’un precursore del romanticismo, non riesce sempre di facile intendimento. E che la cosa fosse, al tempo medesimo, necessaria, potrei mostrare con una lunga serie di esempi, dai quali apparirebbe quali e quante volte proprio l’interpunzione vichiana, peccante sempre per imprecisione, e talora per eccesso, tal altra per difetto, abbia condotto fuor di strada traduttori e interpreti. Per citare, fra siffatti esempi, soltanto il primo, che, nemmeno a dirlo, ricorre sin dalle prime righe del De uno, nell’edizione originale è scritto: «Quod postquam disserui, amplissimus vir, Cajetanus Argentius, Consilii Neapolitani Praeses, Avunculus tuus, quem appellare laudasse sat est, virum memoria, ingenio, judicio singularem, in graecis latinisque literis adprime versatum, lectione, meditatione, stylo multissimum, et omnis divini atque humani juris, publici privatique tum scientia, tum solertia nostrae memoriae facile principati, id judicium palam omnibus protulit, me super eo argumento disseruisse, uti oratorem, philosophum et jurisconsultum oportebat; quo nullum sane aliud evenire mihi optatius poterat: namque ea ipsa tria omnino praestare conatus eram, ut philologiam, qua oratores ornantur maxime, philosophiae submitterem, ejusque severȧ trutinȧ expenderem, eaque ratione Jurisprudentiae Principia statuminarem». E l’Amante, fra gli altri, traduce: «E poi ch’ebbi posto fine al mio parlare, il chiarissimo uomo Gaetano Argento Preside del Napolitano Consiglio e tuo zio materno, di cui il nome solo è giá una lode, uomo per memoria, per ingegno, per giudizio singolare», ecc. ecc.: con che, anche a prescindere dalle continue improprietá[2], si fa commettere al Vico il solecismo di porre all’accusativo quel «virum memoria, ingenio, iudicio singularem», che parve al traduttore, e non è, caso d’apposizione al nominativo «Caietanus Argentius». Laddove, punteggiando come ho interpunto io[3] — e cioè spezzando in due l’interminabile periodo e quindi ponendo tra «iurisconsultum oportebat» e «quo nullum» un punto fermo, che accentua la separazione fra il giudizio dell’Argento sulla prolusione vichiana e l’interpretazione, affatto soggettiva, che di quel giudizio dá il Vico; chiudendo fra tratti l’inciso, lungo ben cinque righe, che comincia da «quem appellare» e termina a «facile principem»; e sopra tutto espungendo l’inopportuna virgola tra «quem appellare laudasse sat est» e «virum memoria, ingenio, iudicio singularem» — si rende, voglio lusingarmi, piú chiaro il pensiero vichiano e, al tempo medesimo, si restituisce al Vico la fama, toltagli dalla traduzione dell’Amante, di provetto conoscitore della grammatica latina. Giacché, com’è ovvio, nella frase «quem appellare laudasse sat est virum memoria, ingenio, iudicio singularem», l’accusativo «virum» è correlativo all’accusativo «quem», e la frase stessa va tradotta: «nominare il quale è sufficiente per [oppure: «equivale a»] lodarlo [come] uomo singolare per memoria, ingegno e senso critico» o «mente speculativa» o «riflessione» o «logicitá» (ché a codeste cose appunto, e non genericamente a «giudizio», corrisponde, nella terminologia vichiana, il latino «iudicium»).

A differenza altresí dei precedenti editori, che si contentarono di riprodurli materialmente, ho consacrato particolari cure ai molti rimandi e citazioni dati dal Vico tanto nei loci a piè di pagina del De uno e del De constantia quanto nel testo stesso delle Notae.

Giacché non ho avuto alcuno scrupolo ad ammodernarne la forma (specie nei riguardi delle compilazioni giustinianee), rendendoli, per questo fatto stesso, piú chiari e precisi: nel che mi si potrá accusare tanto meno d’arbitrio, in quanto mi sono avvalso sempre di parentesi quadre le parecchie volte (purtroppo non sempre, giacché certi passi, o per colpa del Vico o per insufficienza mia, mi sono riusciti introvabili) che ho creduto necessario colmare le lacune o rettificare le inesattezze di cui formicolano quelle citazioni.

Che anzi, per rendere men fastidioso ripescare i capoversi o paragrafi dei singoli capitoli del De uno o del De constantia, dei quali, nei loci, il Vico trascrive le prime parole, ho, nel testo, numerato progressivamente, tra parentesi quadre, i capoversi stessi, per poter poi aggiungere nei loci, parimente fra parentesi quadre, i numeri correlativi. Di piú ho inserito tra gli stessi loci, ma avvertendo sempre che si tratta di postille marginali, i rimandi manoscritti alle singole Notae esibiti dall’esemplare della Nazionale di Napoli, continuandoli per mio conto, e quindi aggiungendo l’abbreviazione «[Ed.]», dal punto del De constantia in cui furono intermessi. E infine, poiché gli Scrittori d’Italia non consentono note illustrative o commenti, soltanto in qualche rarissimo caso, ossia quando fosse proprio indispensabile per non fare imboccare al lettore una falsa strada, ho aggiunto alle citazioni propriamente dette talune stringatissime noterelle (una ventina in tutto) per rettificare le piú gravi fra le non poche sviste erudite dell’autore.

Circa la disposizione estrinseca del testo (che, per altro, è cosa estrinseca soltanto sino a un certo punto), ossia anzitutto nei riguardi dei titoli e sottotitoli a stampa di cui, nell’edizione originale, sono gremiti i margini non solo del De uno e del De constantia, ma altresí delle Notae, il Ferrari, con riproduzione materiale, ma per lo meno fedele, li aveva aggiunti anche lui in margine, stampando, press’a poco come il Vico, in corsivo il titolo complessivo dei singoli capitoli del De uno o di taluna tra le singole Notae, e in «tondo» i sottotitoli dei capoversi o paragrafi. I successivi editori, per contrario, dai margini li trasferirono a principio di ciascun capitolo o nota, stampandoli tutti di séguito e tutti in corsivo: con che, da un lato, annullarono la distinzione fra titolo principale e sottotitoli voluta dal Vico, e, dall’altro, convertirono quelle serie (a volta lunghissime) di titoli e sottotitoli in altrettanti sommari, quali non erano al certo nelle intenzioni dell’autore. Per mio conto, pur togliendoli anche io dai margini, ove, dato il loro accavallamento, avrebbero generato, piú che altro, confusione (si direbbe che, quasi presago di non potere o volere aggiungere alcun titolo marginale alle due Scienze nuove, il Vico s’avvalesse del Diritto universale per isfogare in siffatta guisa quel «furore» di distinguere e sottodistinguere, che gli proveniva dalla giovanile autoeducazione barocca), ho inserito a principio di ciascun capitolo o nota, e in caratteri maiuscoli, il titolo principale, soggiungendo a principio dei capoversi rispettivi, ma in caratteri «tondi» e di corpo minore, il sottotitolo o il gruppo di sottotitoli relativi a ciascuno.

Inoltre, come, per le ragioni dette di sopra, ho preposto ai numeri progressivi dei capitoli del De uno la dicitura «caput»; cosí, ma molto di rado, ragioni di euritmia m’hanno indotto, tanto nel De uno quanto nel De constantia e nelle Notae, a supplire tra parentesi quadre qualche titolo o sottotitolo omesso dal Vico per mera distrazione (per esempio, priva di titolo complessivo è nell’edizione originale delle Notae la cosí importante dissertazione su Omero). Per contrario, ho omesso del tutto le Censurae extra ordinem soggiunte al De constantia, giacché le lettere ond’esse constano, una con le note vichiane che le illustrano, sono state giá ripubblicate in quella parte del quinto volume della presente raccolta delle Opere ch’è consacrata al Carteggio. E, finalmente per quanto concerne le Notae, le ho anzitutto numerate progressivamente, non senza aggiungere tra parentesi il rimando ai loci del testo ov’esse sono richiamate; e, in secondo luogo, sceverando dalla massa delle altre quelle che hanno carattere ed estensione di dissertazioni, ho conferito loro particolare dignitá col darle a parte e precisamente quali Dissertationes.

Ben poco è da soggiungere intorno alla critica interna del testo. Com’è ovvio, ho tenuto presente l’esemplare postillato della Nazionale di Napoli: il che m’ha consentito di porre a profitto non solo l’errata-corrige a stampa premesso all’edizione originale delle Notae, ma altresí, da un lato, tutte quelle, tra le postille autografe marginali, che sono correzioni di farfalloni tipografici o di errori o improprietá di forma (sostituzione di qualche particella o avverbio, di qualche sostantivo o aggettivo, di qualche modo o tempo o persona di verbo, e via enumerando) e, dall’altro, le otto facciate autografe dell’errata-corrige manoscritto. E sebbene in tutti questi casi, l’emendamento fosse voluto dal Vico, non ho mancato di avvertirne di volta in volta il lettore: il che, naturalmente, ho fatto con iscrupolositá anche maggiore le pochissime altre volte che qualche refuso o lapsus, sfuggito alla triplice, quadruplice e quintuplice revisione dell’autore, è stato corretto da me. Pochissime volte, giacché non ho osato porre le mani nel latino vichiano se non quando il refuso o lapsus fosse piú che evidente e la correzione piú che sicura. Che se poi a qualche lettore troppo frettoloso apparirá a prima vista che di refusi o lapsus io me ne sia lasciati sfuggire parecchi altri, voglia egli, prima d’accusarmi di sbadataggine, rifare ciò che, in tali casi, ho sempre fatto io: consultare, cioè, il Forcellini, ove probabilmente anche l’anzidetto lettore, divenuto per tal modo non piú frettoloso, troverá, come tante volte ho trovato io, che l’apparente refuso o lapsus è invece forma o costrutto arcaico o tardo o comunque insueto e magari appoggiato all’autoritá d’un solo e oscuro scrittore, e, insomma, che la consumata perizia nel latino indusse il Vico a fare, di quando in quando, del virtuosismo umanistico.

Non ho mancato, per ultimo, di consultare[4] l’altro esemplare postillato inviato al principe Eugenio: consultazione non inutile, perché m’ha posto sulle tracce di quattro o cinque postille marginali di pensiero né trasferite a penna nell’esemplare napoletano, né rifuse nell’edizione a stampa delle Notae, e quindi inedite.

E, naturalmente, le ho intercalate di volta in volta alle altre Notae, senza dare tuttavia a esse un particolare numero, bensí ripetendo con un «bis» (e una volta anche con un «ter») il numero della nota precedente e ponendole, come implicitamente rifiutate dall’autore, tra parentesi quadre.

Malgrado tutte queste mie cure, ho tanto meno la fatuitá di presumere che la presente edizione sia esente da pecche[5], in quanto l’avere avuto tra mano, in questi ultimi mesi, grammatiche, vocabolari e scrittori latini non mi fa dimenticare al certo che sin dall’inizio i miei piú che modesti studi sono stati consacrati ad argomenti ben diversi dalla filologia classica. Ben volentieri, anzi, avrei rinunziato all’onore di porre anche per quest’opera il mio piccolo nome sotto quello immenso» piú capace di me, fosse uscito di bocca a qualche latinista di professione il desiderato «mi sobbarco». Comunque, e quali che siano le mie eventuali manchevolezze, resta sempre il fatto ch’è la prima volta, dopo la morte del filosofo, che il Diritto universale esce in quella forma tipografica «grande e magnifica» che il povero Vico sognò invano una volta pei suoi scritti[6]. Di che il merito spetta intero all’amico Giovanni Laterza, che non ha risparmiato né fatiche né spese per rendere questo postumo omaggio al grande antenato spirituale non solo, come diceva Volfango Goethe, di noi napoletani, ma di tutti gl’italiani.

 Venezia, ottobre 1935 — Napoli, agosto 1936.





Notae

  1. Cfr. nella presente raccolta delle Opere le due Note bibliografiche rispettive.
  2. «Dopo ch’ebbi posto fine al mio parlare» è troppo lungo e troppo generico, né dá alcun rilievo a «disserui»: piú esatto, forse: «terminata la mia dissertazione» o, anche meglio, «la mia prolusione»; — «amplissimus vir, Caietanus Argentius», appunto perché i due nominativi sono separati da una virgola, andava tradotto: «un uomo eminente, Gaetano Argento», anzi (poiché il Vico scrive, non «Argentus», ma «Argentius») «Argenti», forma piú rara del cognome, ma pur data da qualche documento contemporaneo; — «Neapolitani Consilii Praeses» corrisponde in italiano, non a «preside», ma a «presidente del [Sacro Real] Consiglio di Napoli»; — per evitare ambiguitá sarebbe stato meglio anticipare «singolare» e volgere: «uomo singolare per memoria, ingegno e senso critico», ecc. ecc.
  3. Presente edizione, p. 25.
  4. Negli spogli della collectio viciana del Croce.
  5. Indico qualche erroruccio di stampa di cui cui sono avveduto dopo il tiraggio. Pag. 32, capov. 21, r. 3: ««Obbesium», corr. «Hobbesium»; — p. 80, caput LXXVI, titolo: «usu», corr. «usus»; — p. 96, capov. 7, r. 5 «Διός» (nome proprio), corr. «δίος» (aggettivo); — p. 98, n. 2: «emandano», corr. «emendano»;— p. 168, capov. 4, r. 7: «Campo», corr. «campo»; — p. 240, caput CCVIII, titolo: «questionibus», corr. «quaestionibus»; — p. 261, r. 2: fra «theologiae» e «curiaeque» è stato saltato «professor»; — p. 348, capov. 5, r. 1: «aegypti», corr. «aegyptii»; — p. 381, capov. 14, r. 2: «philosopus», corr. «philosophus»; — p. 427, capov. 52, r. 6: «metaphisici», corr. «metaphysici»; — p. 466, capov. 37, r. 5: «paenos», corr. «poenos»; — p. 5S0, r. 2: «Dio nysium», corr. «Dionysium»; — p. 598, r. 3: «Sabaud», corr. «Sabaudii»; — p. 657, nota 1: «citato de», corr. «citato da»; — p. 707, capov. 8, r. 7: «Aetetae», corr. «Aeetae»;—p. 752, titolo: «geographica», corr. «geographia»; — p. 770, r. 18: «Francesco Saverio», corr. «Francesco Paolo». — Qualche disattenzione incorsa nei numeri di rimando alle Notae è stata giá rettificata a suo luogo (cfr. pp. 601, 610, 611, 621). Avverto inoltre, a proposito di p. 376, n. 2, che, con «CCCIƆƆƆXCIX», il Vico voleva indicare l’anno 3099 del mondo: quindi, non l’899, ma il 901 av. Cristo. E, per ultimo, l’amico Luigi Ferrari mi scrive da Venezia d’aver finalmente ripescato nella miscellanea 1760 della Marciana (n.° 18) l’esemplare della Sinopsi di cui si discorre a p. 771, nota 4.
  6. Cfr. Carteggio, p. 192.