IV
IL «DE CONSTANTIA»
Sviluppate, o illusosi d’avere sviluppate, nel De uno le prime due parti della prolusione del 1719, il Vico s’accinse, nell’autunno del 1720, all’impresa piú ardua di svolgere la terza[1], ossia, come s’è giá spiegato[2], a dare un’ampia dimostrazione delle sue nuove teorie sull’origine, la circolaritá e la «costanza», ovvero perpetuitá e rigoroso carattere scientifico, tanto della filosofia quanto della filologia, o, ch’è il medesimo, a ridurre a un unico e perciò medesimo principio tutt’intera la realtá: tanto quella concettuale, ossia la vecchissima scienza dell’universale o del «vero»; quanto quella non concettuale, ossia la nuovissima scienza del particolare o del «certo» (giacché, in virtú del tentativo di convertirla in filosofia, la filologia diventava effettivamente, com’egli sin da allora prese a chiamarla, una «nova scientia»[3]).
Senonché altro sono i fini degli scrittori, poeti, filosofi e storici che siano; altro le poesie, filosofie e storie che a essi accade di scrivere in effetti. Nessuna maraviglia, pertanto, se dei tre aspetti del problema — origine, circolaritá e costanza — il Vico, postosi a tavolino, non desse quasi alcun rilievo al secondo, vale a dire alla teoria dei ricorsi, giunta a piena maturitá soltanto dieci anni dopo, nella seconda Scienza nuova, e, per certi punti, a dirittura nell’ultima redazione di questa, pubblicata postuma nel 1744. Nessuna meraviglia se, pur fermandosi a preferenza sulla «costanza», egli si sbrigasse, o credesse d’essersi sbrigato, della «costanza della filosofia» nei venti brevi capitoletti della prima parte, e che questi, oltre che riuscirgli, generalmente parlando, poco originali, trattino il piú delle volte questioni toto caelo diverse. Nessuna maraviglia infine, se, nel farsi a trattare amplissimamente della «costanza della filologia» nei trentasette ben piú estesi capitoli della seconda parte (taluno, anzi, cosí lungo, da dovere essere