velim: libro II, parte II, p. 24, versu ultimo[1], ubi «et in falsum illud deistarum» [è da emendare] «et nos in falsum illud deistarum». S’aggiunga per ultimo che le pagine 242-260 sono consacrate alle Censurae extra ordinem, e che, a differenza che nel De uno, i richiami delle note a piè di pagina sono indicati, non con asterischi, bensí con numeri arabi, salvo appunto nelle Censurae, nelle quali il Vico s’avvale di lettere alfabetiche.
Malgrado le anzidette Censurae, le accoglienze che, generalmente parlando, il De constantia ebbe in Napoli non peccarono al certo per eccesso di entusiasmo. Senza dubbio, come s’è visto[2], il Vico scrive nell’Autobiografia che, appunto perché accompagnato da quelle Censurae, il De constantia tolse agli emuli dell’autore la voglia di persistere nei loro giudizi svantaggiosi della Sinopsi.
Senonché l’affermazione è da interpretare nel significato (ed è interpretazione autentica, esibita altrove dallo stesso Vico[3] che quegl’«ingegni corti o limitati» doveron pure, di fronte al De constantia, che manteneva tanto piú che l’autore non avesse promesso, cessare dal «dubbitare, e la piú parte tenere per certissimo», che «a mezzo il corso», gli mancasse la possa di ricondurre res divinae e res humanae, filosofia e storia, sotto un unico e medesimo principio. Per contrario, circa le altre e ben altrimente fondate accuse di oscurezza e d’irreligiositá, formulate giá contro il De uno[4], esse, sia pure con acrimonia alquanto minore, vennero ripetute contro il De constantia. Pietro Metastasio, che viveva allora negli stessi ambienti letterari napoletani frequentati dal Vico, e che pare bazzicasse anche in casa di lui (ove, al dir di qualche biografo, avrebbe avuto anni addietro un amoretto da adolescente con una figliuola del filosofo[5]) e che, a ogni modo, proprio nel 172i gli forni l’epitalamio «Su le floride sponde Del placido Sebeto» per la miscellanea pubblicata in occasione delle nozze di Giambattista Filomarino[6]; il Metastasio dunque, nello scrivere a Francesco de Aguirre (16 decembre 1721), tributava, sí, per suo conto, al De constantia le lodi generiche di «opera d’una pura lingua latina, di somma erudizione e d’un acume metafisico», ma