V
GLI ESEMPLARI POSTILLATI E LE «NOTAE»
Ingegno eminentemente autocritico, il Vico non era uomo che, compiuta l’opera sua, potesse starsene a vagheggiarla con ozioso e vanitoso compiacimento. Per contrario, se n’era appena distaccato, e giá in lui, all’ebrezza gioiosa o «divin piacere»[1]
del momento creativo, sottentrava un senso come di scontentezza e quasi di diffidenza verso se medesimo. Da che, da un lato, la brama intensa, ora che l’aveva innanzi tutta stampata, di ritornare sulla sua fatica con animo piú calmo; e, dall’altro, il fermo proposito di considerarla, non piú sua, anzi quasi mero documento d’una posizione mentale giá acquisita alla storia, e intorno al quale, pertanto, gl’incombeva il dovere di esercitare un continuo e serrato lavorio critico, in guisa da procurarsi, qualora la Provvidenza avesse voluto continuare ad aiutarlo, nuovi stimoli per un nuovo e, possibilmente, piú poderoso sforzo di pensiero.
Un primo saggio di codesta incessante e sempre insoddisfatta autocritica, che sará, sino alla morte, la nota dominante della vita mentale del Vico, si trova giá negli Omissa aliquot e negli Aliquot emendata aggiunti in calce al De constantia: primo nucleo delle future Notae e rifuso poi in queste. Ma, poiché il suo stato d’animo era quello che s’è procurato di descrivere, non era assolutamente possibile che quegli omissa e quegli emendata restassero circoscritti in confini cosí angusti. Era inevitabile, per contrario, che essi crescessero di numero e di estensione, alternandosi con correzioni di meri errori tipografici e reintegrazioni di piccoli brani saltati dallo stampatore, via via che l’autore, non senza tornare due, tre, cinque, dieci volte sui propri passi, rivedeva parola per parola quel testo giá tanto torturato.
- ↑ Scienza nuova seconda, ediz. Nicolini2 capov. 345 (prima parte del IV volume della presente raccolta delle Opere, p. 127).